Tuesday, July 28, 2009
Dell'albinismo 2007: Laura, Susanna e Mariapia
Dell’albinismo ne sapevo poco, non avevo trovato niente di specifico nei siti in italiano oltre a una spiegazione su Wikipedia. Agli appuntamenti con le tre giovani donne mi accorgo della loro realtà come qualcosa di non troppo lontano da me. Era da un po’ che mi chiedevo cosa volesse dire essere viverlo. Per alcuni è spaventoso pensare di diventare ciechi, effetto di questa disfunzione, ma la realtà non è fatta di incubi e sogni e perciò incontrandole mi accorgo di trovarmi di fronte ad un’altra sfaccettatura della realtà. Le ragazze non avevano i capelli completamente bianchi né facevano mostra di tutto quello che la mia macchina fotografica avrebbe potuto cogliere con facilità. Quelle che mi si presentavano erano tre belle donne bionde, e simpatiche con grandi occhi chiari.
Mi raccontano pezzi della propria vita, problemi generati da questa cosa che non è un malattia: la carenza di melanina, il difetto degli occhi che le rende parzialmente cieche, la pupilla che si muove continuamente, i capelli che crescendo da bianchi diventano platino-gialli.
Com’era difficile tenere le lenti a contatto e assurdo andare in giro in bicicletta mezza cieche.E io rispondevo che le capivo bene dato che mezza cieca lo sono pure io, chiacchiera dopo chiacchiera valutavo la mia incoscienza, com’era inadatto parlare di albinismo in questa situazione affatto insolita in cui ti affacci in una realtà che presupponi dolorosa ma lo è quanto la vita solo perché l’uomo spesso si dimostra incomprensivo verso la diversità.
E capivo di trovarmi davanti a ragazze considerate semi disabili che disabili non si sentivano per nulla, immerse fino al collo nei meccanismi dello stato che come un padre si prende cura di loro in un’età in cui i genitori non li si vorrebbe più; che l’albinismo nel loro caso è un po’ un’etichetta ed è questo il vero problema sociale che le ha portate a lavorare tutte e tre come centraliniste del comune e si occupano di guidare, come la Beatrice di Dante, studenti e insegnanti e ammalati e chiunque chiami nell’inferno della burocrazia.
Mi raccontano quanto vorrebbero la macchina perché i mezzi pubblici in città sono scarsi. Hanno la parlantina svelta, tutte e tre sposate con figli, Laura e Susanna dopo il lavoro fanno le cantanti, Laura in maniera professionale. Susanna vorrebbe lavorare in un negozio e Maria Pia vorrebbe che i locali stessero aperti dopo l’una la notte.
Ci salutiamo senza promesse e cerco di frenare le loro aspettative.
Vedremo le foto come sono venute.
I Media/2008
Quando scrivono di voi sul giornale, quando siete in televisione in prima serata, artisti, cari miei, quando siete all’apice del successo e siete davvero al massimo, e l’ultimo orgoglio è il non tirarsela affatto nonostante ciò che rappresentiate,e stringere la mano all’ultimo degli insulsi manager, significa attribuirgli un minimo valore che comparato al vostro è niente. Quando siete davvero soli perché la gloria vi rende tali, e la vostra parrucchiera e il vostro cagnolino sono gli unici esseri con cui potete confidarvi- la prima non crede a una sola parola di quello che dite, ma è sempre accondiscendente, e il secondo non tace perché è concentrato nell’ascoltarvi-.
Quando i giornali, la radio e la televisione fanno il bello e brutto tempo nella vostra giornata, e finalmente dopo indicibili sforzi l’avete ottenuto il cielo azzurro limpido e ai vostri occhi siete voi la stella nascente, sappiate che è pura ubriacatura e stringete con le vostre manine sudate il volante di una macchina che si chiama Media e che ha la guida automatica ma la minima velocità permessa sono le 100 miglia orarie. Sappiate che non è possibile frenare, e spesso vi capiterà di investire coniglietti o cervi e monterete sul marciapiedi per salvarvi la pelle proprio come i protagonisti di un videogioco.
Ecco, con un articolo su voi pubblicato vi faranno credere che siete persone importanti, quando non lo siete affatto e non resterà alcuna traccia di voi sulla terra dopo la vostra morte. Qualsiasi cosa direte o scriverete verrà trasfigurato cento duecento volte fino a perdere completamente di significato e verrà usato dai più astuti per manipolare i poveri e poi analizzato da tutti gli altri come formula generatrice di orrore.
Se siete fortunati la vostra immagine verrà ridicolizzata dal passare del tempo, solo pochi consapevoli crederanno davvero nella vostra trascorsa esistenza e misureranno severamente e analiticamente le vostre doti facendo uno schema sul quadernino a scacchi dei vostri successi e fallimenti.
E voi dareste la vita per ancora un po’ di gloria, vero ragazzi? Perché sempre ragazzi siete, ne avete viste delle belle e siete forti come leoni. Ora guardatevi bene attorno, è tutto fumo a occludere la vista, ci vorranno anni a disintossicarvi e non esistono cliniche, si va solo al cimitero, oppure una bella dose di dolore intenso a ricordarvi che siete inutili stupidi esseri umani e non statue. Ma soprattutto credo che basterà assistere allo spettacolo del vostro invecchiamento allo specchio. La prima ruga, la seconda e comincerete a pensare che <>. E il declino fisico è appena all’inizio. Ammiro molto chi non se ne importa, chi se ne frega dei media, ma per ora il mondo della politica e dell’arte, e tutto, tutto il resto pendono dalle labbra di tanti idioti che vivono grazie al loro giocattolino. Grande invenzione.Ho incontrato ieri un poeta completamente abbagliato, accecato dal proprio passato mediatico. Era stato in tv e alla radio e ovunque lassù nel paradiso e come soluzione ai miei problemi di soldi mi ha detto di guadagnare più soldi e giocare alla lotteria una volta alla settimana. Mi ha venduto poesie per 3 dollari e non se la smetteva più di nominare attori e cantanti incontrati. Era senza denti e molto felice.
Insomma, evviva i sogni, evviva New York, ma soprattutto evviva chi è importante prima di tutto per sé stesso e per pochi altri che lo amano davvero intensamente.
Quando i giornali, la radio e la televisione fanno il bello e brutto tempo nella vostra giornata, e finalmente dopo indicibili sforzi l’avete ottenuto il cielo azzurro limpido e ai vostri occhi siete voi la stella nascente, sappiate che è pura ubriacatura e stringete con le vostre manine sudate il volante di una macchina che si chiama Media e che ha la guida automatica ma la minima velocità permessa sono le 100 miglia orarie. Sappiate che non è possibile frenare, e spesso vi capiterà di investire coniglietti o cervi e monterete sul marciapiedi per salvarvi la pelle proprio come i protagonisti di un videogioco.
Ecco, con un articolo su voi pubblicato vi faranno credere che siete persone importanti, quando non lo siete affatto e non resterà alcuna traccia di voi sulla terra dopo la vostra morte. Qualsiasi cosa direte o scriverete verrà trasfigurato cento duecento volte fino a perdere completamente di significato e verrà usato dai più astuti per manipolare i poveri e poi analizzato da tutti gli altri come formula generatrice di orrore.
Se siete fortunati la vostra immagine verrà ridicolizzata dal passare del tempo, solo pochi consapevoli crederanno davvero nella vostra trascorsa esistenza e misureranno severamente e analiticamente le vostre doti facendo uno schema sul quadernino a scacchi dei vostri successi e fallimenti.
E voi dareste la vita per ancora un po’ di gloria, vero ragazzi? Perché sempre ragazzi siete, ne avete viste delle belle e siete forti come leoni. Ora guardatevi bene attorno, è tutto fumo a occludere la vista, ci vorranno anni a disintossicarvi e non esistono cliniche, si va solo al cimitero, oppure una bella dose di dolore intenso a ricordarvi che siete inutili stupidi esseri umani e non statue. Ma soprattutto credo che basterà assistere allo spettacolo del vostro invecchiamento allo specchio. La prima ruga, la seconda e comincerete a pensare che <
Insomma, evviva i sogni, evviva New York, ma soprattutto evviva chi è importante prima di tutto per sé stesso e per pochi altri che lo amano davvero intensamente.
Scritti 2007: Un pachiderma a Roma Termini.
Sono forse un elefante?
Porgo alla cameriera un quesito semplice dopo aver rifiutato un secchio traboccante di noccioline con tanto di guscio come li ho visti solo nel cartone Dumbo della Walt Disney.
In effetti Dumbo di qui ci deve essere proprio passato, forse è un cliente abituale che ha contagiato questo buffo ristorante, nel quale quando ti guardi attorno non c’è nulla delle tue misure delle quali finisci presto per stufarti e anche un po’ vergognarti. Sembra piuttosto un punto di ristoro per giganti, e giganti sono i piatti, le fette di torta e i coltelli.
E seduto ad uno di questi tavolini puoi scegliere se sentirti un piccolo e tozzo immigrato con la nostalgia dei campi e a disagio tra sicure silhuette scenografiche di qualche bufalo della prateria (volato anche lui lì come un elefante appunto), oppure essere un medio italiano della modernità, perfettamente adattato al nuovo ambiente, preparato da secoli di soap opere, documentari e telefilm a questo breve e intenso viaggio nell’americanità di Roma Termini, in cui finalmente i colori delle mucche come quelli delle torte sono brillanti e lucidi, le cameriere ti storcono il naso se dici che sei a dieta, come dire che se sei un vero cow boy della linea te ne freghi e faresti meglio a divorarti la bistecca di carne argentina alla griglia e conseguenti patatine fritte con la silente consapevolezza che solo il vero uomo del Texas possiede.
Mastichi carne senz’ossa, tra insalate di maionese e pollo e pane, puoi contare le molliche sulla tovaglia oppure pensare a quanto grande è il mondo, a come appare singolare ogni volta che ti si mostra nelle sue infinite sfaccettature, anche ora nel tuo piatto o sulla punta della forchetta a un palmo dal tuo naso. Questa volta ci sono fettone di tradizione europea elaborata o semplificata, oppure arricchita di quel tocco estetico-manageriale che ci si cade come pesci in una pentola d’acqua bollente, si finisce con l’esagerare con le french fries e l’hamburger.
Si esce dalla sala coi valigini più piccoli e faticosi da trascinare, i pancini dolenti e gonfi, e a pesare sullo stomaco, un pezzettino d’America.
Porgo alla cameriera un quesito semplice dopo aver rifiutato un secchio traboccante di noccioline con tanto di guscio come li ho visti solo nel cartone Dumbo della Walt Disney.
In effetti Dumbo di qui ci deve essere proprio passato, forse è un cliente abituale che ha contagiato questo buffo ristorante, nel quale quando ti guardi attorno non c’è nulla delle tue misure delle quali finisci presto per stufarti e anche un po’ vergognarti. Sembra piuttosto un punto di ristoro per giganti, e giganti sono i piatti, le fette di torta e i coltelli.
E seduto ad uno di questi tavolini puoi scegliere se sentirti un piccolo e tozzo immigrato con la nostalgia dei campi e a disagio tra sicure silhuette scenografiche di qualche bufalo della prateria (volato anche lui lì come un elefante appunto), oppure essere un medio italiano della modernità, perfettamente adattato al nuovo ambiente, preparato da secoli di soap opere, documentari e telefilm a questo breve e intenso viaggio nell’americanità di Roma Termini, in cui finalmente i colori delle mucche come quelli delle torte sono brillanti e lucidi, le cameriere ti storcono il naso se dici che sei a dieta, come dire che se sei un vero cow boy della linea te ne freghi e faresti meglio a divorarti la bistecca di carne argentina alla griglia e conseguenti patatine fritte con la silente consapevolezza che solo il vero uomo del Texas possiede.
Mastichi carne senz’ossa, tra insalate di maionese e pollo e pane, puoi contare le molliche sulla tovaglia oppure pensare a quanto grande è il mondo, a come appare singolare ogni volta che ti si mostra nelle sue infinite sfaccettature, anche ora nel tuo piatto o sulla punta della forchetta a un palmo dal tuo naso. Questa volta ci sono fettone di tradizione europea elaborata o semplificata, oppure arricchita di quel tocco estetico-manageriale che ci si cade come pesci in una pentola d’acqua bollente, si finisce con l’esagerare con le french fries e l’hamburger.
Si esce dalla sala coi valigini più piccoli e faticosi da trascinare, i pancini dolenti e gonfi, e a pesare sullo stomaco, un pezzettino d’America.
Scritti 2008: Io ed il lavoro.
C’è chi crede mi piaccia cambiare lavoro spesso. Pochi sanno dell’insicurezza che guida ogni mio gesto, anche il più semplice, anche solo mangiare è complicato quando il mondo attorno a te ruota e cerchi di ascoltarne il sibilo. Alcuni sanno quanto sia facile per me apparire completamente idiota allo sguardo esterno, non è capitato una sola volta di dare questa impressione. E’ come se la gente facesse la staffetta passandosi di mano in mano la stessa opinione. Lungo gli anni l’uno nell’orecchio dell’altro sussurrano aggettivi alle mie e alle loro orecchie:-Buffa, strana-e questa voce continuamente mi raggiunge, liberata nell’aria dalla bocca di una faccia sempre diversa, con un grado di insistenza ogni volta differente, ma sempre lo stesso tono tra il sorpreso ed il canzonatorio.
Mi posso trovare in un ristorante a fare la cameriera, a sistemare i libri negli scaffali, incasellata in una posizione qualsiasi della società, ma mai in quella giusta, ed un gigantesca mano di bambino obeso preme su me per farmi partecipare alla struttura del puzzle dove una dopo l’altra tutte le tessere si cammuffano per sembrare altre tessere. Si piegano e si rompono ed il puzzle non ha alcun disegno.
Ed è accaduto lo stesso anche qui a N.Y. dove la gente che cammina per la strada è sensibile, dove i pizzaioli amano fare la pizza, i camerieri sono soddisfatti della professione e c’è una percentuale di sognatori rincoglioniti come me, immischiata in tutto quel che concerne la ristorazione, da capogiro.
Ho scelto questa città anche per non sentirmi sola. A N.Y. non sarebbe sbagliato scegliere il cast per un film chiamando una ditta di catering. Centinaia di artisti goffamente travestiti da camerieri e baristi servono ai grandi party mondani. Nessuno più si occupa di occultare la bizzarra piega che ha preso la realtà e non sai mai se chi ti serve il succo di frutta è un genio della chimica o una futura star di Broadway, o magari il figlio di qualche potente politico, non sai se dire grazie o sentirti profondamente onorato.
Ma illustrare la mia personale realtà lavorativa è comunque raccontare un incubo. Un circolo ripetitivo di persone troppo semplici, intelligenze largamente addestrate e corpi umiliati dall’accondiscendente disinteresse della testa.
E in tutto questo il mio posto è sempre quello sbagliato perché per credere nel lavoro bisogna pensare a singhiozzi e credere di avere dei valori per questo, e mentire molto in profondità a sé stessi e avere come forza motrice della propria staticità una bella dose di vigliaccheria e terrore per il futuro.Allora quando sono lì vestita come un pinguino o con quel tipo di colore che solo a carnevale indosseresti mai e nella mano destra stringo un bicchiere di succo di frutta con ghiaccio e cannuccia, dopo essermi chiesta :-Perché?Perchè lo fai?-e la risposta non segue, mi dico:- Laura, fai finta di portare il succo di frutta alla signora laggiù.-Quale?
-Quella!
-Ma era proprio quella? Già non ricordo
-Dai, vai, sì, chiudi gli occhi dentro te stessa e portaglielo: lei pensa tu sia una cameriera!-e una volta di ritorno mi guardo complimentarmi con me stessa:
-Brava Laura!Vedi che non sei poi così rincoglionita come tanti pensano(e anche tu un po’ lo credi, non ti vergognare di ammetterlo), con il sorriso ad allungarmi le labbra:
-Vedi: ti danno il biscottino se porti il succo di frutta alla signora, lo vuoi o no il biscottino?
Ed ho già rifiutato il biscottino varie volte, scegliendo la brioche o niente.Segue la corsetta a perdifiato dalla mamma passando per i campi, trattenendo lungo il tragitto le urla di gioia, ma già pregustando la serata libera ed il brindisi con gli amici:
-Mi sono licenziata!-
Mi posso trovare in un ristorante a fare la cameriera, a sistemare i libri negli scaffali, incasellata in una posizione qualsiasi della società, ma mai in quella giusta, ed un gigantesca mano di bambino obeso preme su me per farmi partecipare alla struttura del puzzle dove una dopo l’altra tutte le tessere si cammuffano per sembrare altre tessere. Si piegano e si rompono ed il puzzle non ha alcun disegno.
Ed è accaduto lo stesso anche qui a N.Y. dove la gente che cammina per la strada è sensibile, dove i pizzaioli amano fare la pizza, i camerieri sono soddisfatti della professione e c’è una percentuale di sognatori rincoglioniti come me, immischiata in tutto quel che concerne la ristorazione, da capogiro.
Ho scelto questa città anche per non sentirmi sola. A N.Y. non sarebbe sbagliato scegliere il cast per un film chiamando una ditta di catering. Centinaia di artisti goffamente travestiti da camerieri e baristi servono ai grandi party mondani. Nessuno più si occupa di occultare la bizzarra piega che ha preso la realtà e non sai mai se chi ti serve il succo di frutta è un genio della chimica o una futura star di Broadway, o magari il figlio di qualche potente politico, non sai se dire grazie o sentirti profondamente onorato.
Ma illustrare la mia personale realtà lavorativa è comunque raccontare un incubo. Un circolo ripetitivo di persone troppo semplici, intelligenze largamente addestrate e corpi umiliati dall’accondiscendente disinteresse della testa.
E in tutto questo il mio posto è sempre quello sbagliato perché per credere nel lavoro bisogna pensare a singhiozzi e credere di avere dei valori per questo, e mentire molto in profondità a sé stessi e avere come forza motrice della propria staticità una bella dose di vigliaccheria e terrore per il futuro.Allora quando sono lì vestita come un pinguino o con quel tipo di colore che solo a carnevale indosseresti mai e nella mano destra stringo un bicchiere di succo di frutta con ghiaccio e cannuccia, dopo essermi chiesta :-Perché?Perchè lo fai?-e la risposta non segue, mi dico:- Laura, fai finta di portare il succo di frutta alla signora laggiù.-Quale?
-Quella!
-Ma era proprio quella? Già non ricordo
-Dai, vai, sì, chiudi gli occhi dentro te stessa e portaglielo: lei pensa tu sia una cameriera!-e una volta di ritorno mi guardo complimentarmi con me stessa:
-Brava Laura!Vedi che non sei poi così rincoglionita come tanti pensano(e anche tu un po’ lo credi, non ti vergognare di ammetterlo), con il sorriso ad allungarmi le labbra:
-Vedi: ti danno il biscottino se porti il succo di frutta alla signora, lo vuoi o no il biscottino?
Ed ho già rifiutato il biscottino varie volte, scegliendo la brioche o niente.Segue la corsetta a perdifiato dalla mamma passando per i campi, trattenendo lungo il tragitto le urla di gioia, ma già pregustando la serata libera ed il brindisi con gli amici:
-Mi sono licenziata!-
Perugia 2007 Batik Film Festival.
Ultima Visione.
Boccate di aria fresca, ma non umida Perugia ne sente poche.
Però è cominciato proprio oggi il Batik Perugia Film Festival; con entusiasmo siamo accorsi, e fuori dalla Galleria Nazionale mezz’ora prima dell’incontro sul cinema e sull’arte con Sakurov e Ghezzi c’era già la fila:
-Avete la prenotazione?-
Certo che No.
Non c’era scritto sul depliant, migliaia di copie sparse per la città. Inutile chiedersi quante, quanta gente era stata presa in giro. Dopo un po’ eravamo un centinaio le persone davanti alla porta; chi venuto addirittura da Roma per l’evento, gente che arrivava, chiedeva, ci restava male e se ne andava. Ma non solo delusione negli occhi, potevi vedere chi seduto sul gradone all’esterno dell’edificio si macerava visibilmente dalla rabbia e erano quelli che ci tenevano di più, quelli che seguono il cinema e la notte riescono a guardarselo dall’inizio alla fine Fuori Orario. No, gli intellectual fans, oppure quelli che erano solo assetati di cultura e disposti a passare tutta la domenica a girare per la città cercando i locali dove avrà luogo la rassegna, davano espressione dell’amarezza trattenendo la ferocia e tentando di ottenere spiegazioni dalle due signorine al portone che selezionavano chi poteva entrare con l’invito e chi non non ce l’aveva fuori.
-Per motivi di sicurezza non vi possiamo far entrare- anche se siete verdi di collera, anche se c’era scritto solo sul sito internet che bisognava prenotare.
-E come mai che gli altri se ne sono accorti che c’era da telefonare prima di venire? Anche sull’annuncio stampa c’era scritto.Che forse gli altri sono più intelligenti?-
E sì, che dare dello stupidi a un centinaio di persone che corrono a vedere chiacchierare Sakurov e Ghezzi di arte e cinema non è coerente, forse non erano lucide o forse pensavano di essere i buttafuori di una discoteca.
Sta di fatto che non si è potuto entrare e non si è potuto fuggire. Abbiamo aspettato che le ragazze se ne entrassero per non mollare la presa, salire le scale, c’era chi cercava di illudere le due organizzatrici che ormai erano la personificazione vivente della sorveglianza, chi cercava un modo per infiltrarsi, come se la Galleria Nazionale si fosse trasformata in una fortezza, ma più come se attorno a noi fosse stata eretta la galera. Allora ho visto la porta chiudersi davanti a quei pochi con la speranza accesa negli occhi.
Non l’ho guardata spegnersi, spero ancora non si sia spenta.
Ho pensato ai pomodori, alle uova marce, ai calci nel culo. A sfondare l’entrata, a farglielo capire con le buone che rabbia avevano generato nelle persone, che la rabbia sempre sarebbe sfociata da qualche parte. Che le spiegazioni servono, che le scuse che non abbiamo ricevuto ancora, ce le devono e stiamo nelle nostre casine ancora irritati ad attenderle.
Boccate di aria fresca, ma non umida Perugia ne sente poche.
Però è cominciato proprio oggi il Batik Perugia Film Festival; con entusiasmo siamo accorsi, e fuori dalla Galleria Nazionale mezz’ora prima dell’incontro sul cinema e sull’arte con Sakurov e Ghezzi c’era già la fila:
-Avete la prenotazione?-
Certo che No.
Non c’era scritto sul depliant, migliaia di copie sparse per la città. Inutile chiedersi quante, quanta gente era stata presa in giro. Dopo un po’ eravamo un centinaio le persone davanti alla porta; chi venuto addirittura da Roma per l’evento, gente che arrivava, chiedeva, ci restava male e se ne andava. Ma non solo delusione negli occhi, potevi vedere chi seduto sul gradone all’esterno dell’edificio si macerava visibilmente dalla rabbia e erano quelli che ci tenevano di più, quelli che seguono il cinema e la notte riescono a guardarselo dall’inizio alla fine Fuori Orario. No, gli intellectual fans, oppure quelli che erano solo assetati di cultura e disposti a passare tutta la domenica a girare per la città cercando i locali dove avrà luogo la rassegna, davano espressione dell’amarezza trattenendo la ferocia e tentando di ottenere spiegazioni dalle due signorine al portone che selezionavano chi poteva entrare con l’invito e chi non non ce l’aveva fuori.
-Per motivi di sicurezza non vi possiamo far entrare- anche se siete verdi di collera, anche se c’era scritto solo sul sito internet che bisognava prenotare.
-E come mai che gli altri se ne sono accorti che c’era da telefonare prima di venire? Anche sull’annuncio stampa c’era scritto.Che forse gli altri sono più intelligenti?-
E sì, che dare dello stupidi a un centinaio di persone che corrono a vedere chiacchierare Sakurov e Ghezzi di arte e cinema non è coerente, forse non erano lucide o forse pensavano di essere i buttafuori di una discoteca.
Sta di fatto che non si è potuto entrare e non si è potuto fuggire. Abbiamo aspettato che le ragazze se ne entrassero per non mollare la presa, salire le scale, c’era chi cercava di illudere le due organizzatrici che ormai erano la personificazione vivente della sorveglianza, chi cercava un modo per infiltrarsi, come se la Galleria Nazionale si fosse trasformata in una fortezza, ma più come se attorno a noi fosse stata eretta la galera. Allora ho visto la porta chiudersi davanti a quei pochi con la speranza accesa negli occhi.
Non l’ho guardata spegnersi, spero ancora non si sia spenta.
Ho pensato ai pomodori, alle uova marce, ai calci nel culo. A sfondare l’entrata, a farglielo capire con le buone che rabbia avevano generato nelle persone, che la rabbia sempre sarebbe sfociata da qualche parte. Che le spiegazioni servono, che le scuse che non abbiamo ricevuto ancora, ce le devono e stiamo nelle nostre casine ancora irritati ad attenderle.
Scritti 2007.
Dracula a colazione.
Ma che sguardo pieno di mielosa bontà cristiana. Ti fanno capire quanto è necessario il tuo sangue a quel paziente lassù nel reparto, e poi ti fanno stendere coperta d’attenzione come neanche a chirurgia. Ti chiedono –E allora, come va? Non è che svieni?- No, che non svengo, rispondo io ridendo. Dieci minuti e te l’hanno ciucciato mezzo litro di sangue e mentre tutti si sentivano buoni e si preparavano al paradiso con il sorriso sulle labbra, io ostentavo noncuranza chiedevo di leggere il giornale, e la vedevo proprio come una questione di egoismo invece, insomma, se fosse capitato a me di averne bisogno del sangue, non vorrei che poi non ce ne fosse abbastanza. E finito il prelievo cominciano a chiederti cosa vuoi mangiare, cosa vuoi bere, caffè? E ti mettono nelle mani panini al prosciutto giganteschi e cappuccini e tu pensi peccato che si possa donare solo una volta ogni tanto che verrei tutte le mattine qui, in questo strano ambiente, coccolato da mani estranee.
Mi alzo lentamente ma il calo di pressione si sente, mi ristendo e sto altri dieci minuti ad aspettare tra le battutte e la preoccupazione generale. Si raccomandano che io non svenga in corridoio. Ma per quando mi sono alzata la stanza si è riempita di gente a cui gira la testa, alcuni vanno proprio nel panico, mi vietano di guardare il mio sangue e mi chiamano Laura, come fossimo amici di vecchia data. E mi chiedono cosa vuoi, un altro caffè?
Mica ne posso prendere tre questa mattina. Un po’ d’aria fresca, invece, una bella passeggiata in questo caro ospedale, che mi ha così gentilmente privilegiata, coccolata e adulata, mi ci faccio un giretto cercando in anticipo la porta della medicina del lavoro dove mi spettano cinque tipi di visite gratuite programmate nella stessa mattinata.Le rimando, una gioia crogiolarsi nel sistema sanitario italiano quando funziona, mi capita raramente di dire :-Grazie, per fortuna sono in Italia-
Ma che sguardo pieno di mielosa bontà cristiana. Ti fanno capire quanto è necessario il tuo sangue a quel paziente lassù nel reparto, e poi ti fanno stendere coperta d’attenzione come neanche a chirurgia. Ti chiedono –E allora, come va? Non è che svieni?- No, che non svengo, rispondo io ridendo. Dieci minuti e te l’hanno ciucciato mezzo litro di sangue e mentre tutti si sentivano buoni e si preparavano al paradiso con il sorriso sulle labbra, io ostentavo noncuranza chiedevo di leggere il giornale, e la vedevo proprio come una questione di egoismo invece, insomma, se fosse capitato a me di averne bisogno del sangue, non vorrei che poi non ce ne fosse abbastanza. E finito il prelievo cominciano a chiederti cosa vuoi mangiare, cosa vuoi bere, caffè? E ti mettono nelle mani panini al prosciutto giganteschi e cappuccini e tu pensi peccato che si possa donare solo una volta ogni tanto che verrei tutte le mattine qui, in questo strano ambiente, coccolato da mani estranee.
Mi alzo lentamente ma il calo di pressione si sente, mi ristendo e sto altri dieci minuti ad aspettare tra le battutte e la preoccupazione generale. Si raccomandano che io non svenga in corridoio. Ma per quando mi sono alzata la stanza si è riempita di gente a cui gira la testa, alcuni vanno proprio nel panico, mi vietano di guardare il mio sangue e mi chiamano Laura, come fossimo amici di vecchia data. E mi chiedono cosa vuoi, un altro caffè?
Mica ne posso prendere tre questa mattina. Un po’ d’aria fresca, invece, una bella passeggiata in questo caro ospedale, che mi ha così gentilmente privilegiata, coccolata e adulata, mi ci faccio un giretto cercando in anticipo la porta della medicina del lavoro dove mi spettano cinque tipi di visite gratuite programmate nella stessa mattinata.Le rimando, una gioia crogiolarsi nel sistema sanitario italiano quando funziona, mi capita raramente di dire :-Grazie, per fortuna sono in Italia-
2007 Arte Fiera a Bologna.
Il quadro della situazione.
E relativa cornice.
Te ne accorgi presto che non si tratta solo di arte contemporanea, che in quel “contemporanea” è intrinseco il senso della realtà per intero. Perciò non parlare di arte pura nè di natura, perché di questo se ne occupano gli artisti esclusivamente nelle loro opere.
Dimenticati la giustizia e Van Gogh, lo sforzo e l’impegno, anche quello sociale, ma soprattutto scordati la verità detta e l’onestà verso te stesso e verso i tuoi lavori, se non vuoi essere presto sorpassato da un qualcuno meno motivato, meno cosciente di sè, meno umanista, tutto volto al denaro e in perfetta sintonia con questo luogo, una fiera per l’appunto, dove l’arte è finalmente monetizzata, e tu, artista emergente, artista innocente, cerca di non sentirti proprio un pesce fuor d’acqua, perché questo non è l’inferno, ma l’unico paradiso che puoi sognare su questa terra, il luogo di trapasso per la professione di artista affermato.
Perciò cammina a testa alta ed atteggiati a ricco collezionista se vuoi ricevere per un attimo l’attenzione del gallerista o del critico, la cui stronzaggine è direttamente proporzionale alla potenza. Armati di faccia da culo, chiedi indirizzi email senza far perdere a nessuno più di tre secondi, ed è inutile che trascini per i padiglioni il caro portfolio, faticosamente confezionato.
-Questa non è la sede- è la risposta che già conosci.
Bene, allora, dai un occhiata alle opere, vedili un po’ i lavori di questi artisti (ancora) in vita.
Di emozione ce n’è poca, quando c’è è intensa. Molto cervello, sorprese, quadri che da lontano ti sembrano niente e poi ti avvicini e vedi quell’elemento che ti fa sobbalzare in un’esclamazione.
E se te li comprassi e portassi a casa dovresti proprio farla vedere ai tuoi amici collezionisti che sorpresina, quest’arte contemporanea! Che effetti!Quanta tecnologia, che ironia, una scienza!
A volte invece ti scappa una risatina di puro divertimento davanti certi piccoli schermi con performance di critica sociale imbellettata, uno sbuffo di noia davanti alle ultranoiose riprese ultraripetute. Davanti qualche opera potresti arrivare anche a chiederti “Perché?” nel senso più vasto dell’interrogazione. Per risposta ci sono sicuramente libri e cataloghi a bizzeffe da leggere, se ne avrai il tempo, la voglia e il denaro per comprarli.
Tanta presunzione d’attualità, ultrapop, pop e ripop, tant’astrazione sentita e no, tanta arte da mozzare il fiato, tanta da dimenticare appena usciti. Due immensi padiglioni, le galleriste vestite di nero come nei films anni ottanta.
Con uno sguardo sanno quanto hai in tasca, pregano di essere pagate con un assegno, e che non venga chiesto loro lo sconto, per favore.
Ti fanno attendere anche dieci minuti per il solo biglietto da visita se stanno parlando con un probabile acquirente.
E poi, dopo tanti giri, dopo ore ed ore d’immagini e sculture, quando sei proprio rincoglionito da tutta quest’arte e cominci a pensare di mangiartele le opere che tanto costa troppo un altro panino al bar, cerchi affannosamente una panchina perchè vorresti addormentarti e pensi a come sarebbe se il mondo fosse questo e il valore dell’arte e del bello fosse questo per tutte le persone che conosci, per quelli della pizzeria sotto casa e della famiglia, e se questo non fosse un microcosmo chiuso dentro sé che mentre trasuda espressività, forza e cultura, può solo sopravvivere di denaro.
E relativa cornice.
Te ne accorgi presto che non si tratta solo di arte contemporanea, che in quel “contemporanea” è intrinseco il senso della realtà per intero. Perciò non parlare di arte pura nè di natura, perché di questo se ne occupano gli artisti esclusivamente nelle loro opere.
Dimenticati la giustizia e Van Gogh, lo sforzo e l’impegno, anche quello sociale, ma soprattutto scordati la verità detta e l’onestà verso te stesso e verso i tuoi lavori, se non vuoi essere presto sorpassato da un qualcuno meno motivato, meno cosciente di sè, meno umanista, tutto volto al denaro e in perfetta sintonia con questo luogo, una fiera per l’appunto, dove l’arte è finalmente monetizzata, e tu, artista emergente, artista innocente, cerca di non sentirti proprio un pesce fuor d’acqua, perché questo non è l’inferno, ma l’unico paradiso che puoi sognare su questa terra, il luogo di trapasso per la professione di artista affermato.
Perciò cammina a testa alta ed atteggiati a ricco collezionista se vuoi ricevere per un attimo l’attenzione del gallerista o del critico, la cui stronzaggine è direttamente proporzionale alla potenza. Armati di faccia da culo, chiedi indirizzi email senza far perdere a nessuno più di tre secondi, ed è inutile che trascini per i padiglioni il caro portfolio, faticosamente confezionato.
-Questa non è la sede- è la risposta che già conosci.
Bene, allora, dai un occhiata alle opere, vedili un po’ i lavori di questi artisti (ancora) in vita.
Di emozione ce n’è poca, quando c’è è intensa. Molto cervello, sorprese, quadri che da lontano ti sembrano niente e poi ti avvicini e vedi quell’elemento che ti fa sobbalzare in un’esclamazione.
E se te li comprassi e portassi a casa dovresti proprio farla vedere ai tuoi amici collezionisti che sorpresina, quest’arte contemporanea! Che effetti!Quanta tecnologia, che ironia, una scienza!
A volte invece ti scappa una risatina di puro divertimento davanti certi piccoli schermi con performance di critica sociale imbellettata, uno sbuffo di noia davanti alle ultranoiose riprese ultraripetute. Davanti qualche opera potresti arrivare anche a chiederti “Perché?” nel senso più vasto dell’interrogazione. Per risposta ci sono sicuramente libri e cataloghi a bizzeffe da leggere, se ne avrai il tempo, la voglia e il denaro per comprarli.
Tanta presunzione d’attualità, ultrapop, pop e ripop, tant’astrazione sentita e no, tanta arte da mozzare il fiato, tanta da dimenticare appena usciti. Due immensi padiglioni, le galleriste vestite di nero come nei films anni ottanta.
Con uno sguardo sanno quanto hai in tasca, pregano di essere pagate con un assegno, e che non venga chiesto loro lo sconto, per favore.
Ti fanno attendere anche dieci minuti per il solo biglietto da visita se stanno parlando con un probabile acquirente.
E poi, dopo tanti giri, dopo ore ed ore d’immagini e sculture, quando sei proprio rincoglionito da tutta quest’arte e cominci a pensare di mangiartele le opere che tanto costa troppo un altro panino al bar, cerchi affannosamente una panchina perchè vorresti addormentarti e pensi a come sarebbe se il mondo fosse questo e il valore dell’arte e del bello fosse questo per tutte le persone che conosci, per quelli della pizzeria sotto casa e della famiglia, e se questo non fosse un microcosmo chiuso dentro sé che mentre trasuda espressività, forza e cultura, può solo sopravvivere di denaro.
Scritti 2006: La Biblioteca delle Nuvole
Ed ecco un po' di scritti tirati fuori dalla cantina:
Anno 2006
Con la testa tra le nuvole. Parlanti.
Ma dov’è?
Sta proprio lì, lì, Campanellino, dietro quella nuvola a destra.
Quella a forma di casupolone comunista?
Quella che riflette i colori della Coop, a pochi metri sotto, quella è la Biblioteca delle Nuvole. Dicono di essere umani quelli che ci lavorano, ma non è vero se c’è in giro gente come Superman... lo conosci?
Si, Superman, ne ho letto di lui. Ma non vive qui, è americano!
Sì, ma anche noi siamo giunti qui richiamati da qualcosa simile al canto delle sirene, ma forse era jazz…
Comunque Superman è quello che di giorno si traveste da impiegato, e salva gli umani in pericolo. Se ci sono in giro esseri come lui, quelli della Biblioteca delle Nuvole non sono certamente umani. Invece c’è un altro personaggio che si chiama Dylan Dog, si fa chiamare l’indagatore dell’incubo, ci siamo incontrati una volta, combatteva con Capitan Uncino ed è fuggito. Te lo presenterò. E poi ce ne sono tanti e tanti altri, eroi e no, si incontrano lì ogni martedì, giovedì, sabato pomeriggio.
C’è chi ardisce strategie per combattere ogni genere di male, diavolo e creatura, chi combina guai e spesso ha anche grosse manie di potenza, chi se ne infischia invece e vive in un mondo umano ma parallelo a quello solo più reale direi.
Più reale di quello umano?!
Beh, sì. Quello degli umani non è reale, è solo un poí troppo noioso, ci sono personaggi che vedono cose a cui gli uomini non fanno più caso. Perchè si sono abituati, credo.
La Biblioteca delle Nuvole si libra tra cielo e terra, per permettere di porre le domande giuste ai personaggi di tutti i tempi ed i mondi, per deridere la noia e vivere in tutti i luoghi. E l’entrata è libera per chiunque, che tu sia papero pazzo, lupo addomesticato, ladro di bestiame e topo geometra, sei libero di entrare e vedere con i tuoi propri occhi tutte le storie che vuoi, riempirti la testa di sogni e giustizia e bellezza, e come sai anche tu, Campanellino,
poi si vola più leggeri…
Anno 2006
Con la testa tra le nuvole. Parlanti.
Ma dov’è?
Sta proprio lì, lì, Campanellino, dietro quella nuvola a destra.
Quella a forma di casupolone comunista?
Quella che riflette i colori della Coop, a pochi metri sotto, quella è la Biblioteca delle Nuvole. Dicono di essere umani quelli che ci lavorano, ma non è vero se c’è in giro gente come Superman... lo conosci?
Si, Superman, ne ho letto di lui. Ma non vive qui, è americano!
Sì, ma anche noi siamo giunti qui richiamati da qualcosa simile al canto delle sirene, ma forse era jazz…
Comunque Superman è quello che di giorno si traveste da impiegato, e salva gli umani in pericolo. Se ci sono in giro esseri come lui, quelli della Biblioteca delle Nuvole non sono certamente umani. Invece c’è un altro personaggio che si chiama Dylan Dog, si fa chiamare l’indagatore dell’incubo, ci siamo incontrati una volta, combatteva con Capitan Uncino ed è fuggito. Te lo presenterò. E poi ce ne sono tanti e tanti altri, eroi e no, si incontrano lì ogni martedì, giovedì, sabato pomeriggio.
C’è chi ardisce strategie per combattere ogni genere di male, diavolo e creatura, chi combina guai e spesso ha anche grosse manie di potenza, chi se ne infischia invece e vive in un mondo umano ma parallelo a quello solo più reale direi.
Più reale di quello umano?!
Beh, sì. Quello degli umani non è reale, è solo un poí troppo noioso, ci sono personaggi che vedono cose a cui gli uomini non fanno più caso. Perchè si sono abituati, credo.
La Biblioteca delle Nuvole si libra tra cielo e terra, per permettere di porre le domande giuste ai personaggi di tutti i tempi ed i mondi, per deridere la noia e vivere in tutti i luoghi. E l’entrata è libera per chiunque, che tu sia papero pazzo, lupo addomesticato, ladro di bestiame e topo geometra, sei libero di entrare e vedere con i tuoi propri occhi tutte le storie che vuoi, riempirti la testa di sogni e giustizia e bellezza, e come sai anche tu, Campanellino,
poi si vola più leggeri…
Che cosa sta accadendo proprio mentre voi abitanti di Torino fuggite al mare oppure restate al chiuso dentro le vostre case a fare la sauna? Perché invece non uscite e andate a passeggiare al parchetto dietro il numero 45 di Via Reiss Romoli e aspettate le 5 all’ombra?
Qualche cosa lì succede.
Il venticello fresco ha materializzato nel bel mezzo di luglio delle intraprendenti danzatrici contemporanee e performers venute da tutta italia, lì col solo scopo di rinfrescare le vostre menti accaldate, e farvi partecipi del loro mondo di meraviglie artistiche da condividere con il passante ed il curioso. La creazione concettuale vissuta dalla parte dell’artista per quelli che l’arte non si sono mai chiesti neppure che cosa sia.
Siete invitati proprio tutti. Vari progetti, e feste organizzate dall'associazione culturale Reiss, e per saperne di più varie informazioni al sito www.reissartiperformative.org.
Signore e signori, ragazzi e bambini, ci vediamo lì.
No Dal Molin/Luglio 2009
FIORI FRESCHI APPASSISCONO IN FRETTA
Ero lì sull’autobus con loro, quelli chiamati dai giornali nazionali “Blackblock”, e Sì: erano ben preparati per lo scontro fin dall’inizio. Non erano vestiti di nero, e non mi sono apparsi affatto minacciosi.Al contrario parlavano come dei ragazzi partecipativi, intelligenti, in gamba e facevano sfoggio di un buon senso dell’umorismo. Non conoscevo nessuno di loro all’inizio, tranne i due che gentilmente si sono accordati per passarmi a prendere al bar sotto casa mia. Con loro ho parlato per telefono. Un tipo puntuale, con una piccola macchinina topolina, mi incontra e ci avviamo per incontrare l’autobus sulla statale.
Il tipo seduto accanto a me, sembra un ragazzo taciturno, poi lentamente si apre. Comincio col chiedergli ingenuamente se la manifestazione secondo lui sarebbe stata violenta, lui risponde esibendo in modo feticista l’armamentario di difesa e attacco contenuto nello zainetto: maschera antigas, casco eccetera, dice di essere anarchico, ma neppure sembra saper esattamente che cosa sia l'anarchia teorizzata.
E’ di politica che si discute sul bus. Si leggono i giornali e si commentano le varie leggi. Chicchiero con un’altra ragazza, che si sta laureando a scienze orientali. Impara il cinese e lavora ad un bar e quindi non ha sempre tempo per partecipare alle manifestazioni assieme al suo ragazzo. Lei mi racconta di quanto sia sfiduciata, di come voglia andarsene via dall’italia, io istintivamente la incoraggio. L' atmosfera è comunque tranquilla, un po' come andare ad una partita di calcio, a parte il romantico fascino ribelle che questi giovani emanano, si sentono un po' dei piccoli Doors oppure Rimbaud, forse un po' lo sono. Lo stesso ragazzo che mi aveva mostrato le “armi” , davanti a un bicchiere di vino all’autogrill mi confida che ha fatto il soldato per quattro anni in Afganistan. Disinnescava le mine e ha visto esplodere un bambino ed è rimasto sconvolto e ha voluto smettere. –Perché hai smesso?- Risponde che è rimasto schifato dal comportamento dei compagni, i civili venivano trattati da prigionieri, non sapevano neppure cosa succedesse loro una volta presi ed è per questo che ora è diventato anarchico, buddista e dice che non mangia carne morta (soltanto viva, rispondo io, ironica).
Arriviamo al casello autostradale di Vicenza. La polizia inspiegabilmente ci lascia entrare in città benchè abbia notato tutta la nostra attrezzatura.–Che gentili i poliziotti- commentiamo.-
I piani sono questi e li decide il NoDalMolin:
Noi stiamo di fronte al corteo, facciamo una barricata e le vecchiette e gli anziani stanno al presidio al sicuro dove c’è cibo birra e parlano gli organizzatori.
Non mi sembra un gran piano. Le vecchine si bevono una birra al presidio mentre a cento metri noi combattiamo ferocemente? Non gli andrà di traverso la birra? E cosa fanno i poliziotti se passano?Picchiano le vecchine e capovolgono i tavoli o si fermano con loro a bere la birra? A me sembrava una partita organizzata male. La polizia che non era convinta né poteva decidere cosa fare, perché da Roma arrivavano gli ordini, e Roma ha smobilitato un numero di poliziotti pari a quello dei manifestanti, con elicotteri e pompieri e anche molto pittoreschi vigili su barchetta che stanno proprio sotto il ponte, ma chiunque sui giornali le cifre le usa e distorce.
Due schieramenti, uno di fronte all’altro per troppo a lungo, fino a sbadigliare per la noia o per la tensione.I ragazzi smarriti, incazzati, oppressi prima di tutto dai genitori specchio di una società intera che gli chiede solo di mangiare gli spaghetti. Una volta arrivati al presidio, ci viene data la benedizione da parte del Movimento No Dal Molin:
Voi, Vicentini venuti in maniera pacifica alla manifestazione, non guardate male i ragazzi con i caschi e gli scudi venuti da tutta italia!Fanno quello che gli diciamo noi e sono venuti per proteggervi! Per prendersi le botte che voi non vi prenderete-
Scroscio di applausi.
Questa manifestazione fino a un paio di ore prima era legalissima, soltanto all’ultimo la polizia ha deciso di proibirci di manifestare. Ha cambiato idea, una provocazione al movimento NoDalMolin, che li ha evidentememente irritati.
Quindi ecco i primi scontri nelle stradine tra i lussureggianti campi agricoli padani, nessuno si fa male perché da entrambe le parti tutti erano preparati alla lotta. Il caos dura solo pochi minuti dopo il lancio di qualche lacrimogeno e la fuga generale..
La lunga pausa di trattativa sotto il sole cocente e in piedi su striscie di asfalto bruciante sarebbe bastata a convincere la peggiore testa calda alla ritirata.
Per proteggerci da un centinaio di ragazzini arrabbiati col mondo, noi italiani abbiamo pagato un giorno intero di lavoro a qualche migliaio di poliziotti, con addosso 30 kg solo di giacchetto anti proiettile (come mi ha spiegato l’ex soldato seduto accanto a me sull’autobus) che sono stati in piedi in posizione d’attesa per circa 5 ore alla temperatura di 30 gradi e con un’umidità infernale. Loro, i poliziotti, non volevano neppure essere lì e non facevano nulla se non attendere ordini , fare quello per cui erano pagati e non reagire nonostante le provocazioni e le offese. -Vergogna e vaffanculo-la gente urla loro.
Poi i ragazzini si levano il casco e vanno a fumarsi una sigaretta sul prato, i poliziotti si levano il casco anche loro e passeggiano e lasciano finalmente passare il corteo. La tensione è ancora alta, ma si sfila per la città e si canta, si urla e si suona come si dovrebbe fare in una manifestazione in un paese democratico.
Rimonto sull’autobus esausta e incontro i miei compagni di viaggio. Dico: E allora? E’ andato tutto bene…-commento.
I ragazzi sono delusi, volevano davvero partecipare alla festa della politica entrando dalla porta dietro.Da quella davanti per loro è impensabile. Restituire la violenza che si subiscono forse a casa, forse a scuola, psicologicamente indifesi e preparati fin troppo bene alla logica del non senso, che la struttura della società stessa è capace di mostrare sulla loro pelle.
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